Fondazione Angelo Frammartino, Borsa di studio per la pace 2011/2012; Prima Area tematica: Pratiche di nonviolenza per la soluzione dei conflitti. “Più minacciosa della violenza”, resistenza nonviolenta e obiezione di coscienza in Israele/Palestina: una comparazione tra il Comitato popolare contro il muro e gli insediamenti e i Combattenti per la pace.
Uno dei sentieri di ricerca più stimolanti e al tempo stesso ancora non ampiamente percorsi nello studio del conflitto israelo-palestinese è la prospettiva euristica che si concentra intorno alla resistenza nonviolenta e all’obiezione di coscienza di fronte all’opzione militare e armata. Si tratta dello studio delle pratiche individuali e organizzate derivanti dal rifiuto, da un lato, del servizio nelle fila delle Israeli Defense Forces, e, dall’altro, della partecipazione alla resistenza armata palestinese contro l’occupazione israeliana. Due scelte certamente differenti, ma non per questo meno interessanti da analizzare e comparare. Se infatti gli studi scientifici – ma anche la pubblicistica – non hanno mancato di approfondire la storia dell’obiezione di coscienza all’interno di numerosi e tra loro diversi movimenti israeliani, questa realtà appare ancora scarsamente affrontata in campo palestinese e nell’ambito delle associazioni congiunte israelo-palestinesi.
La storia dell’obiezione di coscienza nel teatro politico e bellico successivo alla fondazione dello stato d’Israele nasce con il primo conflitto arabo-israeliano (1948-49). Ma è con gli anni Sessanta e in particolare dopo la guerra dei Sei giorni del giugno 1967 che nell’opinione pubblica israeliana si fanno strada le opinioni contrarie all’intervento militare e si organizzano le diverse anime che comporranno la galassia pacifista costellata di posizioni ed espressioni tra loro molto differenti.
Negli stessi anni anche all’interno dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) si elaborano le prime riflessioni che – pur rivendicando il diritto del popolo palestinese a una resistenza armata nel quadro di occupazione militare determinatosi con la disfatta araba del 1967 – criticano il modello insurrezionale e si concentrano sull’individuazione di opzioni nonviolente.
Un’ulteriore svolta periodizzante nella storia dell’obiezione di coscienza in Israele e Palestina è rappresentato dagli anni Ottanta, con lo scatenarsi della prima guerra del Libano (1982-85) e successivamente della prima intifada (1987-90).
Le pesanti conseguenze dell’intervento delle truppe israeliane nel corso dell’operazione “Pace in Galilea” portò infatti a una decisa crescita nel numero di obiettori di coscienza, i cosiddetti refuseniks. Dalla crisi interna alla società israeliana originata dal conflitto, nacque Yesh Gvul («c’è un limite»), il primo movimento a sostenere apertamente la scelta di obiezione di coscienza attuata da giovani israeliani.
La prima intifada rappresentò negli anni successivi il laboratorio storico dell’opzione di disobbedienza civile e resistenza nonviolenta palestinese preparata fin dagli anni Sessanta.
Il fallimento delle speranze di pace originate dal processo di Oslo nel corso degli anni ’90 e lo scoppio della seconda intifada nel 2000 hanno aperto nuovi spazi di resistenza su entrambi i fronti, con forme e riferimenti ideologici diversi rispetto alla fase precedente. Secondo la prospettiva che ci interessa, numerose esperienze si sono aperte: è il caso in Israele di movimenti come i Combattenti per la pace e nei Territori palestinesi della rete di villaggi riunita nel Comitato popolare contro il Muro e gli insediamenti (Popular Committee Against Wall and Settlements) che mette in rete una serie di villaggi palestinesi, di attivisti israeliani ma anche internazionali che hanno scelto di opporsi pacificamente alla costruzione della barriera di separazione e all’espansione delle colonie israeliane al di là della Linea verde. Proprio su queste due realtà congiunte israelo-palestinesi – il Comitato popolare e i Combattenti per la pace – concentreremo in modo specifico la nostra analisi.
L’obiezione di coscienza appare in questi decenni come scelta e pratica da inserire all’interno della resistenza popolare nonviolenta. I primi passi della resistenza di alcuni villaggi palestinesi sono strettamente legati al fallimento del processo di pace di Oslo, lo scoppio della seconda intifada, la repressione israeliana e il pesante insuccesso dei movimenti politici palestinesi nel creare un fronte unico di lotta. Bil’in, Nil’in, al-Ma’sara, Nabi Saleh, At-Tuwani, Abud, Biddu, Budrus, Jayyous sono i nuovi simboli ed esempi della lotta palestinese. Se le aree maggiormente segnate negli scontri durante la seconda intifada erano le regioni di Jenin, Nablus e Tulkarem, il centro di questa nuova resistenza si estende in diverse parti della Cisgiordania. La geografia della resistenza pare seguire il tracciato del muro e alcune delle aree più colpite dall’espansione degli insediamenti.
Il movimento dei Combattenti per la pace nasce nel 2005 da un gruppo di israeliani e palestinesi con un passato di impegno armato all’interno del conflitto, nelle fila delle IDF nel caso dei membri israeliani e nei movimenti di resistenza violenta per quanto riguarda i palestinesi. La rinuncia alla violenza, sia attraverso l’obiezione di coscienza nell’esercito oppure l’allontanamento da gruppi armati, si unisce nei Combattenti per la pace alla ricerca di un’azione e di un impegno comune tra israeliani e palestinesi.
L’origine e gli sviluppi dei Combattenti per la pace, così come le vicende della resistenza palestinese nonviolenta della rete di villaggi e della rete di solidarietà e attivismo internazionale costituitasi intorno al Comitato popolare contro il Muro e gli insediamenti, mostrano due strade differenti di associazionismo congiunto originatosi nel corso della seconda intifada e negli anni immediatamente successivi.
Le due esperienze presentano alcuni elementi simili: il richiamo ad un impegno comune a israeliani e palestinesi, con una componente esterna di sostegno e diffusione di informazioni, analisi ed esperienze. I due movimenti, inoltre, hanno come obiettivo prioritario la fine dell’occupazione militare israeliana e riconoscono una disparità di forze in campo.
Entrambe queste associazioni scelgono come modalità di espressione azioni nonviolente, siano esse manifestazioni pacifiche davanti al muro, attività di contrasto all’espansione delle colonie (occupazione di campi, progetti di coltivazione delle terre e in particolare degli ulivi), coordinamento di visite guidate nei Territori occupati. Ritornare alla nonviolenza e alla disobbedienza civile che hanno guidato la maggior parte della resistenza della sollevazione palestinese alla fine degli anni Ottanta viene così contrapposto alle scelte attuate nella seconda intifada. Da parte israeliana, questa distinzione appare più sfumata: nel caso dei Combattenti per la pace, alcuni intervistati negano il carattere nonviolento alla prima intifada.
I due gruppi divergono però per alcuni elementi: i Combattenti per la pace rispecchiano un modello associativo piuttosto chiaro e organizzato, diviso per coordinamenti geografici e per attività. La struttura del Comitato popolare contro il muro e gli insediamenti risponde maggiormente alle esigenze di un grassroot movement, un movimento dal basso, più fluido nell’appartenenza e nella gerarchia, pur avendo un coordinamento fisso con una leadership chiaramente identificabile.
Legato a questo punto emerge un’ulteriore differenza di rilievo tra le due realtà: i Combattenti per la pace hanno come elemento centrale l’incontro personale e diretto tra israeliani e palestinesi. Le loro attività presentano dunque questo fine, siano esse riunioni mensili, attività teatrali oppure visite nei Territori occupati. Questo tipo di associazionismo pone in primo piano il vissuto personale di ogni membro. Nel caso del Comitato dei villaggi e della rete di israeliani (e attivisti internazionali), al contrario, l’elemento fondamentale di raccordo tra i membri e nell’immagine presentata all’esterno è l’impegno politico e “dal basso” contro il regime di occupazione. La biografia dei membri si dimostra rilevante soprattutto nella misura in cui il movimento si presenta agli occhi di osservatori (siano essi attivisti, gruppi, ma anche media e realtà politiche) internazionali, ancor più che nell’associazione in sé e per sé.
Questa considerazione conduce a un ultimo punto: il ruolo e l’influenza che attori esterni al contesto israelo-palestinese esercitano nei due gruppi. In entrambi i casi, appare forte il rischio di una confusione di agende – e in alcuni casi anche di rilevanza mediatica – tra i membri israeliani, palestinesi e internazionali.
Sono questi alcuni degli interrogativi che pesano maggiormente sulle esperienze attuali delle associazioni analizzate e di altri movimenti in Israele/Palestina. Domande da cui dipendono il futuro di questi gruppi e che richiedono l’elaborazione di risposte per comprendere, approfondire e continuare il cammino, faticoso ma cruciale, per la ricerca di una pace giusta in Medio Oriente.
Maria Chiara Rioli