La scuola italiana di oggi rispecchia le trasformazioni in atto ormai da alcuni anni nella nostra società, che diviene sempre meno omogenea e monolitica. È infatti indubbio che l’Italia, che per decenni è stata terra di emigrazione, sia oggi anche terra di immigrazione.
Tali trasformazioni non possono non avere una loro influenza anche nella scuola, in particolare in considerazione del fatto che i bambini e i ragazzi fino a sedici anni non soltanto hanno il diritto, ma anche il dovere di frequentare la scuola, come è stabilito dall’art. 34 della Costituzione, che sancisce: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Secondo i dati più recenti della Caritas, il numero di immigrati musulmani in Italia raggiunge ormai 1.354.901 unità, ossia il 32% degli stranieri residenti in Italia, tra cui molti sono musulmani che, pur non avendo la cittadinanza italiana, sono comunque nati in Italia e che per questo non ha senso, a mio avviso, chiamare stranieri. A questi numeri vanno aggiunti i musulmani italiani che, secondo le stime, sarebbero almeno tra i 40.000 e i 60.000. L’Islam, insomma, è divenuto ormai parte del patrimonio religioso, demografico e sociale italiano. Questa ricerca ha tentato di esaminare in che modo i bambini e i ragazzi musulmani vengono integrati nelle scuole italiane attraverso un’analisi teorica delle fonti di diritto internazionale e nazionale e uno studio sul campo con interviste a genitori di alunni musulmani, alunni e operatori raccolte in alcune scuole e in alcune associazioni dislocate sul territorio di Roma.
È evidente che la scuola, insieme alla famiglia, rappresenta il momento fondamentale dell’educazione dei bambini e dei ragazzi. Inoltre, nelle famiglie di origine straniera, si tratta del primo e più marcato contatto che i bambini e i ragazzi hanno con la cultura di accoglienza, ossia, in questo caso, con quella italiana: di conseguenza l’incontro tra queste nuove generazioni e la scuola rappresenta un momento fondamentale per porre le basi di un’effettiva partecipazione o, al contrario, dell’esclusione di queste persone dalla società italiana. Più che sul concetto di integrazione, tanto usato da apparire ormai abusato, si è pensato di riflettere su quello di incontro, per verificare quali siano le possibilità reali di una scuola interculturale, in cui cioè le culture si incontrino, appunto. Si tratta di una sfida che la scuola italiana è necessariamente chiamata a raccogliere: non si tratta di discutere quindi del “se” aprirsi all’incontro con l’altro, che è ormai un dato di fatto, ma di “come” farlo.
Va notato che a differenza di paesi come la Francia o la Germania, in cui i musulmani provengono principalmente da una o due nazioni, in Italia l’Islam è davvero plurale: ci sono musulmani sunniti (in netta maggioranza), ma anche musulmani sciiti, musulmani italiani e musulmani provenienti dal Marocco, dal Pakistan, dall’Egitto, dall’Albania e così via. In ognuna di queste realtà si ha un approccio diverso alla religione, cui si aggiunge, ovviamente, una diversa maniera di relazionarsi alla religione che dipende dalla persona stessa e dal suo (eventuale) rapporto con essa. Questa pluralità riveste grande importanza per quanto riguarda la questione dei rapporti tra Stato e Islam, dal momento che coinvolge la questione della rappresentanza: chi è legittimato a porsi come interlocutore nei confronti dello Stato italiano?
Nel momento in cui esiste un interlocutore unico nei confronti dello Stato è possibile giungere a stipulare con esso un’intesa, ma non è questo il caso dell’Islam: non a caso sono state avanzate varie proposte di intesa tra la comunità musulmana e lo Stato italiano, ma nessuna di esse è andata effettivamente in porto. Per questo non è possibile generalizzare, ma soltanto dare delle indicazioni di massima su quali possono essere le problematiche dei musulmani e delle musulmane che frequentano la scuola italiana.
Purtroppo sembra dimostrato che gli alunni e le alunne non italiani abbiano maggiori difficoltà scolastiche, che si riducono ma non scompaiono tra i nati in Italia, e che riguardano anche i figli di coppie miste: tali differenze diminuiscono quando i genitori hanno titoli di studio molto elevati, ma non spariscono del tutto. Inoltre gli alunni e le alunne che non hanno la cittadinanza italiana tendono a fare scelte scolastiche orientate più alla professionalità, in molti casi rinunciando al percorso universitario, condannandosi in questo modo, solitamente, alla subalternità professionale. La causa di questo risiede soltanto in alcuni casi in una insufficiente conoscenza della lingua italiana, dal momento che molti di questi alunni sono nati in Italia. Fattori più decisivi sembrano essere le difficoltà dei genitori nel seguire i figli durante il loro percorso scolastico e l’usanza, sconsigliata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ma non per questo abbandonata, di inserire gli alunni non italiani che arrivano in Italia a percorso scolastico già iniziato in classi inferiori rispetto alla loro età anagrafica, nella convinzione che questo dovrebbe aiutarli ad apprendere l’italiano, anziché essere causa di frustrazioni, come spesso accade.
Da un punto di vista normativo non esiste una discriminazione per quanto riguarda gli alunni musulmani rispetto al diritto all’accesso scolastico, ma risulta tuttavia evidente la mancanza di un vero progetto educativo interculturale: è certo che il Ministero ha scelto da tempo, nella teoria, la strada dell’educazione interculturale, ma nella prassi è evidente che quanto dato non è sufficiente. Non si può limitare la questione dell’educazione interculturale alla convivenza tra alunni italiani e non italiani e a corsi di lingua italiana, tra l’altro poco continuativi e di dubbio successo, viste le difficoltà scolastiche che incontrano gli alunni che non hanno iniziato la loro scolarizzazione in Italia: è ovvio che questo è solo il primo passo, ma che c’è bisogno di un lavoro reale sulla questione dell’incontro. Oltre alla problematica del diverso successo scolastico degli alunni con cittadinanza non italiana, ci sono altre questioni da prendere in esame, come quella linguistica, con cui ci si riferisce da un lato all’insegnamento dell’italiano come seconda lingua e dall’altro all’insegnamento della lingua materna, che è un diritto garantito da alcuni documenti internazionali e da alcune circolari ministeriali, ma che non trova riscontro nella prassi.
Tale discorso riguarda in particolare l’arabo, lingua che ha anche una forte valenza religiosa e che solitamente gli alunni imparano soltanto in moschea. Lo stesso si può dire per l’insegnamento dei principi religiosi dell’Islam, mentre sarebbe opportuno che almeno un’introduzione ad essi venisse offerta nella scuola stessa, magari in un insegnamento di storia delle religioni che sostituisse o integrasse quello di religione cattolica. Da un punto di vista alimentare va ricordato che i musulmani sono tenuti a rispettare alcune prescrizioni, quali il divieto di mangiare carne di maiale e il dovere di consumare carne ḥalāl, ossia macellata secondo i principi del diritto islamico. Se teoricamente esiste un diritto a usufruire di diete speciali per motivi etico-religiosi, nella prassi la carne ḥalāl non viene offerta nelle mense scolastiche.
Un’altra questione che si pone è quella del digiuno nel mese sacro di Ramaḍān, nel quale i musulmani devono astenersi dall’alba al tramonto dal bere, mangiare, fumare e praticare attività sessuali. I bambini non devono digiunare: non si pone, quindi, la questione per i bambini e le bambine più piccoli, ma per chi ha superato la pubertà e già da prima per quei bambini che vengono gradualmente abituati al digiuno.
Diventa difficile, ad esempio, svolgere gli esami nel mese di Ramaḍān, perché gli alunni e le alunne potrebbero avere un calo delle prestazioni proprio per questo motivo, come potrebbe accadere nel 2014, quando il mese di Ramaḍān inizierà il 28 giugno, periodo di esami, o nel 2015, quando inizierà il 18 giugno. Analogamente, il mancato riconoscimento delle feste fondamentali per i musulmani, come la ‘Īd al-Fiṭr e la Īd al-Aḍḥā, fa sì che possano essere programmate verifiche o esami in tali giorni o nei giorni immediatamente successivi e che gli alunni che vogliano assentarsi in queste occasioni debbano essere giustificati. Altre questioni importanti sono quella del velo, che molto spesso le ragazze hanno paura ad indossare per paura di essere discriminate, e quella dei libri scolastici, che offrono una rappresentazione dell’Islam distorta e storicamente scorretta. In generale risulta comunque una certa soddisfazione nei confronti della scuola pubblica italiana da parte dei genitori degli alunni musulmani e degli alunni stessi, per lo meno nei casi che sono stati presi in esame, ma va anche sottolineato che molto altro deve essere fatto perché la scuola pubblica italiana diventi davvero un luogo di incontro tra culture e religioni: nella prassi, infatti, le alunne e gli alunni con cittadinanza non italiana non vengono ancora valorizzati come dovrebbero in quanto portatori di un’altra lingua, un’altra cultura, un’altra religione, e lo stesso vale per i musulmani italiani, nonostante vari documenti prevedano la valorizzazione della cultura e della lingua di origine.
Certamente quello che davvero rappresenta il punto di forza della scuola italiana è la scelta, da un punto di vista teorico, dell’interculturalità: per quanto la strada perché essa diventi davvero un luogo di incontro è lunga, va comunque detto che la sua grande forza è quella di insegnare agli alunni a convivere con le proprie differenze, sociali, etniche e religiose. La scuola pubblica italiana ha la fortuna di poter diventare un laboratorio che prepari i suoi allievi e le sue allieve al futuro, a una società in cui speriamo che la discriminazione, la segregazione e il razzismo non trovino posto, perché la scuola (e ovviamente la famiglia) si è resa capace di produrre validi anticorpi ad essi.
Serena Tolino