L’impegno per la legalità; la lotta contro le mafie e la criminalità. Il crimine organizzato, la corruzione e l’illegalità stanno minando la nostra democrazia permeando i sistemi politici, economici e finanziari in ogni parte del mondo.
La lotta contro l’illegalità, nelle sue forme più diverse e sofisticate, spesso vede in prima fila persone singole, lasciate sole proprio nei momenti più difficili, ma senza queste persone e questi movimenti la nostra vita sarebbe ancora meno sicura. Diamo voce a queste esperienze di grande coraggio. Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce, Elisabetta Tripodi, Maria Carmela Lanzetta.
I volti delle donne protagoniste di questa ricerca mi passarono davanti agli occhi, mentre scrivevo la mia proposta di ricerca. Da qui il titolo: L’impegno per la legalità: quando la lotta contro la ’ndrangheta ha il volto di donna.
Visi belli, puliti, inusuali se associati al termine ’ndrangheta. Visi diversi, che ci narrano storie diverse tra loro, ma legate insieme dal sottile filo della speranza, della voglia di cambiamento, della convinzione che la ’ndranghetae le mafie, in Italia, privano i cittadini del diritto ad essere felici.
L’attacco sferrato da queste donne all’organizzazione criminale calabrese è duplice, contemporaneo, proveniente da fronti opposti: dall’interno, da quelle donne cresciute in seno a famiglie di ’ndrangheta, che decidono di dire basta ad un sistema di cui sono prima di tutto figlie; e dall’esterno, da donne che hanno il volto dello Stato, quei sindaci che credono fermamente in ciò che, tra le case sgarrupate di Monasterace e Rosarno, è ancora utopia: la possibilità di riscatto, le buone pratiche amministrative, il rispetto delle regole come base per la convivenza civile.
I volti di Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce ci racconteranno dello scontro, doloroso, tra due fedeltà culturali: fedeltà alla famiglia, di sangue e di ’ndrangheta, e fedeltà allo Stato. Due fedeltà opposte, incompatibili, che si escludono a vicenda, portando a scelte difficili, sofferte, spesso tragiche.
I volti di Elisabetta Tripodi e Maria Carmela Lanzetta, sindache di due comuni calabresi, ci narreranno le difficoltà ataviche di una regione restia a considerarsi parte di uno Stato unito, lontana dall’idea che il bene pubblico sia una cosa preziosa, condivisa, da valorizzare.
Di una regione che, ancora oggi, guarda alle tasse come imposizione di uno Stato forte e lontano. Strascichi di una questione meridionale mai risolta. Questa malsana idea di Stato, di amministrazioni locali, va ad alimentare la pseudocultura di cui la ’ndrangheta si nutre.
E’ per questo che la ’ndrangheta minaccia i sindaci calabresi: perché, ancor prima di toccare direttamente gli interessi criminali, le azioni di questi amministratori ne minano le fondamenta culturali, cioè l’assenza di regole, il clientelismo, la corruzione. Per la complessità del fenomeno, lo studio dell’universo femminile inserito in una realtà di ’ndrangheta è stato affrontato, con sguardo multidisciplinare, tramite la consultazione di materiale documentale di grande varietà.
La ricerca effettuata si è servita sia di fonti scritte che orali: documenti giudiziari, con particolare attenzione alle intercettazioni telefoniche, archivi di quotidiani e settimanali, diari e lettere, ma anche interviste, colloqui con osservatori privilegiati e addetti ai lavori.
Raccontando queste storie, tutte molto recenti, rimane la certezza che le donne potrebbero scuotere la ’ndrangheta dalle fondamenta.
L’auspicio è che il tempo confermi la nostra speranza attuale: che si tratti cioè di un risveglio più ampio, che dalle testimoni e collaboratrici di giustizia e dai sindaci influenzi tutta la Calabria, e l’Italia intera.
Emilia Lacroce