Riflessioni sulla dolorosa vicenda di Stefano Cucchi e di altri Cittadini.
Come si può accettare che una persona sia condotta nei “Palazzi” preposti alla tutela della legalità democratica e ne esca privata della vita, che un corpo straziato e offeso continui, muto, a gridare la propria sofferenza, che i responsabili e gli artefici della sua morte violenta continuino a rimanere nell’ombra, che il diritto dei suoi famigliari di conoscere la verità continui a non trovare una dignitosa risposta?
« Come è possibile tutto questo? Possiamo tollerare che tutto ciò accada?»: sono le domande che ritornano drammaticamente di attualità per l’inquietante e dolorosa vicenda di Stefano Cucchi. Non intendiamo entrare nel merito di una tragedia umana il cui dolore in altre circostanze andrebbe rispettato con il silenzio, ma ci sono gravi responsabilità che debbono essere verificate e attribuite e che non possono essere ignorate.
Dopo la sentenza di assoluzione in appello di tutti gli imputati del processo, non possiamo non chiederci con sconcerto e con amarezza come sia possibile che proprio le Istituzioni – le quali in primis dovrebbero garantire la sicurezza dei cittadini, “di tutti i cittadini” – non garantiscano l’incolumità delle persone che hanno preso in custodia.
Il fatto che un essere umano muoia, non per cause naturali, mentre è affidato alla responsabilità degli organi dello Stato è inaccettabile dal punto di vista sociale e civile, prima ancora che giuridico e non fare chiarezza su quanto è realmente accaduto significa gettare sabbia nei complessi ingranaggi della società civile, facendone scricchiolare i principi fondanti. La sentenza pronunciata in questi giorni sollecita una profonda riflessione sul concetto stesso di democrazia, ma soprattutto sulla concezione di Stato e sulla dicotomia tra pubblica amministrazione e collettività sociale.
Una dicotomia che questa “assoluzione collettiva” evidenzia in tutta la sua pericolosità e paradossalità, considerato che proprio al servizio e alla tutela della collettività l’amministrazione pubblica dovrebbe essere preposta. Calpestare in nome di una pretesa “ragione di Stato” i diritti fondamentali dei cittadini, relegandone la dignità e la vita sullo sfondo di uno scenario dominato da una logica di opportunità, significa accettare che la legge possa non essere uguale per tutti e quindi negare i principi stessi della democrazia.
Dobbiamo tutti avere consapevolezza del fatto che ciò equivale ad una regressione lungo il cammino della civiltà.
Cosa fare quando uno Stato non protegge le persone che sono “nelle sue mani” e distoglie lo sguardo dalle loro dolorose e tragiche vicende, quando uno Stato non cura le proprie parti malate generando così le condizioni perché la malattia si propaghi anche ad altri dei suoi organi vitali, quando uno Stato permette che ad una lunga lista – Stefano Cucchi…. e Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Riccardo Magherini, Stefano Brunetti, Marco Saturno, Riccardo Rasman, Michele Ferrulli, Bernardino Budroni… Marcello Lonzi…. – non si ponga la parola “fine”…..?
Finché se ne parlerà e se ne scriverà con determinazione, con indignazione e con sdegno, finché l’opinione pubblica, le cariche istituzionali, le singole persone continueranno a sostenere la battaglia condotta con instancabile coraggio dalle famiglie delle vittime,vogliamo poter credere che su ciascuno di questi drammi si potrà – si vorrà – gettare un fascio di “giusta luce” per conoscere la verità e per far sì che la giustizia possa seguire il proprio corso naturale.
Ogni labirinto – per quanto intricato esso sia – ha una via di uscita e, in questo caso, trovarla è non solo un dovere umano e sociale, ma anche una condizione imprescindibile perché lo Stato possa riconoscersi quale depositario del diritto e della legalità democratica.
In questa prospettiva, le parole che Christa Wolf affida ad uno dei personaggi femminili del suo romanzo Cassandra – «tra uccidere e morire c’è una terza via, Vivere» – ci sembra possano rappresentare il bivio di fronte al quale si trova ora la società civile, la cui “scelta per la vita” deve necessariamente essere improntata al rispetto dei diritti: primo fra tutti il rispetto della persona, ma anche il rispetto del diritto di un genitore di conoscere la verità sulla morte del proprio figlio e di una sorella di sapere perché non potrà mai più abbracciare suo fratello.
Non vogliamo dovere continuare a chiederci «Possiamo tollerare che tutto ciò accada ?», vogliamo che mai più abbia ad accadere. La Fondazione Angelo Frammartino condivide i sentimenti e la sofferenza di tutte le vittime di questa “eclissi di giustizia”.
Il perdono è una libera scelta e in quanto tale appartiene alla sfera personale, ma la verità e la giustizia sono valori sociali imprescindibili senza i quali la via che conduce alla Pace rimarrebbe irrimediabilmente preclusa perché Pace è … Giustizia!
Monterotondo, 15 novembre 2014