Lo scorso 9 agosto, a Caulonia, in occasione della cerimonia per la consegna del Premio Angelo Frammartino 2015 abbiamo conosciuto Luisa Foti e i suoi genitori: è stato un incontro intenso e colmo di significato.
Luisa ci ha raccontato la sua esperienza di volontariato in Palestina e come il suo cammino si sia intrecciato a quello percorso nove anni fa da Angelo.
Ringraziamo Luisa Foti per averci offerto l’opportunità di pubblicare nel sito della nostra Fondazione un estratto delle commoventi e coinvolgenti pagine del suo diario di viaggio.
La dimensione della continuità,
lungo il cammino di Pace tracciato da Angelo Frammartino
di Luisa Foti
La Palestina ritorna
Il taccuino è in carta riciclata, comprato un giorno nella speranza di utilizzarlo, è stato riposto in un cassetto per mesi, sognando di essere usato come diario di viaggio. L’orologio segna le sei del mattino, la borsa è stracolma e la cerniera cerca di raccogliere tre maglie, due pantaloni e un vestito.
Il viaggio è nello stesso posto in cui sono stata tre mesi fa: la Palestina ritorna.
Dopo aver fatto scalo ad Atene, all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv temo di incontrare qualche difficoltà per ottenere il visto israeliano ma, a parte qualche domanda sulla ragione del viaggio, tutto procede liscio. Attendo così i primi compagni di viaggio per raggiungere Ramallah, in Cisgiordania.
La Cisgiordania non è l’inferno di Gaza ma il muro di separazione, una barriera lunga 732 chilometri che gli israeliani definiscono un “presidio di sicurezza”, contribuisce a creare un’altra prigione a cielo aperto.
Lungo il tragitto – tra i check point più famosi della Cisgiordania – incrociamo Qalandiya, che separa Gerusalemme da Ramallah. Si tratta di un posto di blocco militare che permette di andare nella città Santa dalla Cisgiordania, vietando l’ingresso ai palestinesi sforniti di permesso.
La nostra base si trova nei pressi della tomba di Jasser Arafat e a pochi metri è possibile raggiungere anche il museo di Mhammud Darwish, il più famoso poeta palestinese.
Al centro ricreativo di Ramallah, dove ci sistemeremo per tutta la durata del viaggio, ci aspettano i due responsabili del campo – Asad, vulcanico e solare, Sana, donna palestinese il cui velo incornicia un sorriso costante – e Luisa Morgantini, grazie alla quale si è potuta concretizzare la nostra esperienza di volontariato internazionale.
Presidente di Assopacepalestina, Luisa è stata vice presidente del Parlamento Europeo e da anni si batte per la pace in Medio oriente, a fianco di coloro i quali in Palestina, in Israele e nel Mondo credono negli ideali di giustizia e nella prospettiva di una convivenza pacifica che ponga fine alla tragedia israelo-palestinese.
Luisa ci spiega che cosa faremo e come si svolge il lavoro di smistamento di cibo e di generi di prima necessità per la popolazione di Gaza, avvertendoci però che l’operazione Margine Protettivo, l’azione di terra di Israele a Gaza, ha reso necessario modificare il programma del campo.
Tra le escursioni più significative, c’è la visita di Hebron, una delle città più antiche del mondo dopo Gerico e Varanasi. Qui incontriamo i “ ragazzi contro gli insediamenti” (youth against settlement, YAS), un gruppo di attivisti non violenti e non legati ad alcun partito politico, che ci accoglie offrendoci il pranzo mentre Issa, il fondatore di Yas, ci racconta di come dal 1994 la più importante strada della città, Shuhada Street, sia stata chiusa limitando così la libertà di movimento dei palestinesi.
Per proteggere i coloni che si sono lì stabiliti, il governo di Israele ha imposto ai residenti di Hebron sgomberi forzati, coprifuoco, la chiusura di molti negozi, blocchi stradali, l’assoggettamento alla legge militare e la detenzione senza accuse formali portando circa 13.000 persone ad abbandonare le loro case.
Pur essendoci già stata, Hebron mi appare sempre scioccante per l’assurdità dei check point all’interno della città: in tutto il resto della Cisgiordania, i check point si trovano al di fuori dei centri abitati, qui, invece, si trovano all’interno della città a mortificare il vivere quotidiano.
La Valle del Giordano è un vastissimo territorio della Cisgiordania che rientra quasi interamente nella zona C, cioè sotto controllo civile e militare israeliano. Solo il 5% della Valle è zona A, zona soggetta al controllo militare e civile palestinese e zona B, soggetta a controllo misto.
I palestinesi della Valle del Giordano hanno grandissime difficoltà ad accedere all’acqua: ogni palestinese ha diritto a 10 litri al giorno a fronte di 200/300 litri a cui ha diritto un cittadino statunitense ed europeo.
Tra i gruppi della resistenza palestinese incontriamo il comitato popolare di Bil’in, nel villaggio omonimo, a pochi chilometri da Ramallah. Si tratta di uno dei 92 villaggi palestinesi di frontiera, situati sulla green-line, che ha subito la costruzione del muro di separazione e che fa parte di un gruppo di villaggi che ogni giorno lotta silenziosamente contro l’occupazione Israeliana.
Noi volontari ci mettiamo a raccogliere i lacrimogeni sparsi nel terreno che divide la loro terra dal muro: quegli strumenti da guerra saranno trasformati in messaggi di pace e ogni lacrimogeno diventerà vaso per un fiore.
I militari non sembrano gradire questa nostra azione non violenta e, soprattutto, innocua. Così, dopo il lancio di lacrimogeni, siamo costretti a scappare e a raggiungere una distanza relativamente rassicurante. Con il fiatone e una gran paura, ci posizioniamo nei pressi dell’autobus. Per i palestinesi si tratta di ordinaria amministrazione, di quella quotidianità che devono affrontare per difendere la loro terra …
Angelo e Gerusalemme, le nostre strade si incontrano
Sedendosi accanto a me sull’autobus verso Ramallah di ritorno dalla Valle del Giordano Daniela mi chiede del mio viaggio precedente in Palestina: “Quindi tu sei già stata qui”.
Ha capelli lunghissimi e ricci che raccolgono due occhi teneri. Muove le mani con intensità e aspetta una mia risposta.
– “Sì, tre mesi fa, circa, ma questa è un’altra cosa …”, le rispondo.
– “Io sono qui per un motivo preciso. Sarei dovuta venire prima ma dopo la laurea ho vissuto in Russia, in Polonia e … ”, spiega quasi giustificandosi.
– “Forse era solo adesso il momento giusto”, le dico interrompendo la severità del giudizio verso se stessa .
– “Qui è stato ucciso un mio amico, si chiamava Angelo”.
La mia loquacità si placa. Cambia tutto. Distinguo chiaramente gli occhi lucidi di Daniela, mentre parla del suo amico.
– “Angelo era un compagno, una persona speciale animata da una grande sensibilità sociale, …. un poeta! Come me era di Monterotondo ma la sua famiglia era di origini calabresi”, racconta.
– “Daniela – le dico – forse hai un compito importante da svolgere: devi far conoscere la sua storia a più persone possibile”.
– “Lo so e non ho mai smesso di pensarci …”
– ”Ti ringrazio per avermene parlato”.
Arrivati al campo, cerco di collegarmi ad internet attraverso una fragile connessione wi-fi. Trovo subito una foto di Angelo. Non avevo dubbi sulla sua immagine: occhi chiari, capelli castani e viso dolce, sorriso abbozzato.
Ci sono parecchie foto su google ma quella più ricorrente lo ritrae in un abbraccio con un bambino palestinese.
Trovo conferma che vivesse a Monterotondo e, come me, studiasse Giurisprudenza. I suoi genitori sono calabresi, della cittadina jonica di Caulonia, dove ogni anno – nel mese di agosto – viene conferito il Premio Angelo Frammartino quale riconoscimento per il particolare impegno profuso nell’ambito della legalità democratica, della giustizia, della solidarietà e della Pace.
Prometto a Daniela di parlarne, di aiutarla nel ricordo.
Come era possibile che non sapessi nulla di questo ragazzo, portatore di messaggi di amore, di solidarietà e di Pace, la cui vita veniva spezzata a Gerusalemme dove si era recato per regalare un sorriso ai bambini palestinesi vittime innocenti della guerra?
La Fondazione che porta il suo nome è nata per alimentare quegli ideali ai quali Angelo ha dedicato la sua vita. Da quel 10 agosto 2006 il sorriso di Angelo rimarrà per sempre il simbolo dell’Amore che nessuna guerra può cancellare, né il tempo sbiadire.
Nell’ultimo giorno le nostre strade si separano e il gruppo di volontari di Assopace si divide tra chi decide di andare a visitare Jenin e Nablus, e chi invece, appena tre persone, desidera vedere Gerusalemme. Dopo una iniziale indecisione, mi unisco ai tre compagni di viaggio sardi, Erica, Vanessa e Paolo, che non avevano ancora visitato “Al-Quds”, la Città Santa, il nome arabo di Gerusalemme.
Una esplosione di vita si sprigiona in Erica, occhi grandi e neri e una sorprendente capacità di imitare le persone, in Vanessa, espressione fiera ed energica, sembra uscita da un film in bianco e nero, e in Paolo che, in un’altra vita, potrebbe essere nato in Palestina.
I miei tre amici non hanno ancora visto la Città Santa e così mi offro di mettere a disposizione la mia piccola conoscenza di Gerusalemme.
Ero di nuovo lì, a Gerusalemme. Avevo ben impressi nella mente la Porta di Damasco, i mercanti arabi che contrattano con i turisti, la loro merce esposta e l’invito a fermarsi, l’odore dei felafel, il fumo del kebab sulla griglia, i tassisti appoggiati sulle macchine e le loro interminabili sigarette, il volto di Nasser, l’autista che ad aprile mi aveva condotto a vedere la Knesset, e il richiamo “Tel Aviv, Tel Aviv” degli autobus diretti verso l’aeroporto, esattamente come lo avevo ascoltato ad ogni risveglio durante il viaggio precedente.
I nostri volti sono stanchi per le poche ore di sonno e siamo ancora scossi per la perquisizione subita al check-point di Qalandia.
Abbiamo a disposizione solo un giorno per vedere una città immensa e straordinaria e così scegliamo le cose che non possiamo non vedere: il Muro Occidentale, il Santo Sepolcro e ci accontentiamo di ammirare la Cupola della Roccia da lontano per via della chiusura della Spianata delle Moschee.
Avviati verso l’ostello, riceviamo un messaggio di Mohammed, il gigante buono, l’anima del gruppo dei ragazzi palestinesi. Chiamato affettuosamente “Armario”, per via della sua “stazza”, ha accompagnato il nostro gruppo per tutta la durata del campo assieme agli altri ragazzi palestinesi. Ci porta a visitare la scuola frequentata dal poeta Darwish, a fare un giro a Gerusalemme Est e a vedere un’altra delle otto porte di Gerusalemme, la porta di Erode.
Proseguiamo salendo su per una scala che ci conduce sulle mura delle città e passeggiando senza una meta precisa, ci godiamo il panorama e quelle ultime ore di viaggio in una città e in un viaggio
che volge al tramonto. Un murales attira la nostra curiosità modificando il nostro percorso. Si trova nel centro sociale “Burj al Luq Luq”, la “Torre del Fenicottero”.
Tra i murales, vedo in lontananza un campetto da calcio. Mentre scatto qualche foto, sento che quel posto ha qualcosa da raccontare. Armario saluta un uomo che ci viene incontro con l’aria di essere a casa sua: un abbraccio, qualche sorriso e le presentazioni di rito.
“Questo campetto verrà dedicato ad un ragazzo italiano ucciso tempo fa proprio qui”, spiega Armario, raccontandomi con stupore ciò che quell’uomo gli aveva appena rivelato.
Armario conosce quel posto perché è tra i punti più belli da cui poter ammirare la cupola della roccia, ma non aveva sentito mai parlare di quel volontario italiano. Chiedo se il ragazzo si chiami Angelo Frammartino, ma l’uomo, desolato, dice di non ricordare il suo nome ma può farci vedere una foto. Ci fa cenno di seguirlo e ci conduce in un stanza del centro dove dovrebbe essere conservata la foto di quel ragazzo.
Entriamo. Mi guardo attorno e prima che il ragazzo dica qualcosa, riconosco immediatamente il suo volto: è lui, è Angelo.
La sua immagine è appoggiata tra il muro e una scrivania in direzione della cupola della roccia: è come se Angelo fosse rimasto sempre lì ad ammirarla abbagliato da tanta bellezza. Si tratta di un cartoncino che raccoglie due foto che ritraggono Angelo assieme a due bambini palestinesi. Sono due foto emblematiche che rappresentano appieno il cammino di Angelo in favore di quell’infanzia mortificata dal conflitto. Una di queste è la famosa immagine che avevo visto subito dopo il racconto di Daniela.
Siamo spiazzati, emozionati e ancora increduli per essere capitati lì, apparentemente per caso ma, forse, non del tutto: per conoscere meglio il significato della vita di Angelo dovevamo ri-partire proprio da lì, dove la sua vita e il suo cammino di pace si erano interrotti. Non poteva che essere così, anzi, volevamo che fosse così, era ormai questa la nostra interpretazione di quell’ “incontro”, necessario per ricostruire l’impegno pacifista di Angelo Frammartino.
Erica e Vanessa comprendono da subito il valore di quella “coincidenza significativa”, di quella sincronicità, perché nei giorni precedenti avevo raccontato loro di quel ragazzo e della mia idea di scrivere della sua storia. Paolo, invece, non ne sapeva nulla.
“Io sono scettico – mi confida Paolo – ma quello che è successo oggi, il fatto che siamo capitati lì per caso, è davvero una bella cosa”.
Mentre salutiamo Armario con gli occhi gonfi di lacrime e la promessa di rivederci presto, ci avviamo verso l’ostello che ci offre una scomoda sistemazioni per la nostra ultima notte in Palestina ma un panorama della città eccellente.
Quell’ultima notte non è facile, non è semplice dormire dopo quella giornata così intensa, fatta di “incontri” e visioni memorabili. Camminare per le vie di Gerusalemme mi aveva restituito una immensa e inspiegabile serenità, associata alla nostalgia che si stava precocemente manifestando.
Erica e Paolo vanno a dormire sconfitti dalla stanchezza. Io non voglio ancora chiudere gli occhi, ho bisogno di rievocare con la mente quel giorno, perché non finisca e per trovarne il senso.
Vanessa mi fa compagnia per un’ultima chiacchierata davanti ad una Gerusalemme che dorme mentre la cupola della roccia brilla nella notte.
L’ultimo giorno è una corsa contro il tempo: i negoziati falliti al Cairo per fermare i bombardamenti di Gaza e le minacce di Hamas aumentano la tensione tanto che si parla di una possibile chiusura dell’aeroporto Ben Gurion. L’aeroporto, però, è aperto. Si parte. Saluto i sardi. Le nostre strade si separano davvero. Io continuo sola e, mentre mi allontano sulle scale mobili, guardo gli ultimi due compagni di viaggio, Vanessa e Paolo, lasciati al bar a fare colazione.
Il mio volo fa un’ora di ritardo: a quanto pare l’aereo cambia rotta per evitare i missili provenienti da Gaza.
Durante viaggio, dilato tutte le immagini vissute e ne cerco un’ultima da portare a casa e penso agli altri, a tutti gli altri compagni e al loro viaggio, come avrebbe fatto Angelo.
Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri
Non dimenticare il popolo delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
Mahmoud Darwish